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La crisi del Servizio sanitario nazionale

Il 23 dicembre 1978 il Parlamento italiano approvava a larga maggioranza la legge 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) in attuazione dell’art. 32 della Costituzione.

Il Servizio sanitario nazionale mise fine alla copertura sanitaria fornita dalle mutue, un sistema iniquo e dispendioso per le persone e lo Stato.

Tra le innovazioni portate fu l’introduzione di due principi importanti: universalismo e globalità. La salute viene riconosciuta come «diritto dell’individuo e interesse della collettività» a prescindere dall’occupazione. In secondo luogo le componenti della salute non si esauriscono nell’assistenza sanitaria, ma vengono riconosciute esplicitamente anche le dimensioni della prevenzione, della riabilitazione e della promozione della salute.

Da anni però il Servizio sanitario nazionale è in crisi.  Come sottolinea la fondazione Gimbe, negli ultimi 15 anni si sono susseguiti governi che hanno contribuito a un progressivo sgretolamento del SSN e hanno eroso il diritto costituzionale alla tutela alla salute.

Nel decennio 2010-2019 tra tagli e definanziamenti sono stati sottratti al SSN circa € 37 miliardi; il fabbisogno sanitario nazionale (FSN) è aumentato di soli € 8,2 miliardi, con un tasso di crescita inferiore a quello dell’inflazione.

L’aggiornamento degli elenchi delle prestazioni non è stato contestualmente accompagnato dall’aggiornamento delle tariffe delle prestazioni di protesica e specialistica ambulatoriale, rendendo impossibile l’esigibilità dei nuovi LEA su tutto il territorio nazionale.

Si aggiunge il sovra-utilizzo di prestazioni sanitarie inefficaci, inappropriate o dal basso value, sottoutilizzo di prestazioni sanitarie efficaci, appropriate o dal value elevato, frodi e abusi, acquisti a costi eccessivi, complessità amministrative, inadeguato coordinamento dell’assistenza, in particolare tra ospedale e territorio.

Inoltre, la Fondazione Gimbe ha rilevato che il sistema SSN è condizionato dalla politica e da un contesto socio-culturale, fattori che hanno compromesso ulteriormente la stabilità del SSN.

La pandemia che si abbattuta nel 2020 ha mostrato tutte le fragilità del SSN, in particolare del capitale umano e nell’assistenza territoriale, oltre che nella “catena di comando” Stato-Regioni e nella comunicazione istituzionale. Ma allo stesso tempo la pandemia ha aumentato la consapevolezza che un servizio sanitario pubblico, equo e universalistico rappresenta un pilastro insostituibile della nostra democrazia.

Negli anni 2020-2022 il fondo sanitario nazionale è cresciuto di € 11,6 miliardi, rispetto agli € 8,2 miliardi del decennio 2010-2019. M ale ingenti risorse sono state assorbite dall’emergenza pandemica e non hanno permesso di rafforzare in maniera strutturale il SSN, né di mantenere i conti delle Regioni in ordine.

Con la Legge di Bilancio 2023 il Governo ha aumentato il FSN di € 2,15 miliardi per il 2023 (di cui € 1,4 miliardi assorbiti dalla crisi energetica), di € 2,3 miliardi per il 2024 e di € 2,6 miliardi per il 2025. Si tratta di cifre irrisorie in considerazione dell’inflazione di settembre 2023. Inoltre, rileva Gimbe, nel medio periodo non si intravede alcun programma di rilancio degli investimenti.

Non è una situazione rosea. Come sottolinea il Sole24Ore, in base all’aggiornamento dei dati della Nadef e dei riconteggi dell’Istat, il finanziamento sanitario di quest’anno si attesta al 6,27% del Pil, livello sostanzialmente replicato l’anno prossimo, fino a un’ulteriore limatura al 6,20% nel 2026. Si tratta dei livelli più bassi dal 2007.

Per tornare al 6,7% del prodotto ai livelli del 2022, occorrono 9,2 miliardi quest’anno e 9,4 miliardi nel 2025.

Ancora più alte sono le cifre necessarie per raggiungere l’8% del Pil come richiesto dagli scienziati: servirebbero 32 miliardi quest’anno e 37,4 miliardi l’anno prossimo. Si tratta di cifre impossibili, visto lo stato dei conti pubblici.

Aumentano i cittadini che rinunciano alle prestazioni sanitarie

Secondo l’Istat nel 2023 la quota delle persone che hanno dovuto fare a meno delle cure ammonta al 7,6% sull’intera popolazione,  in aumento rispetto al 7,0% dell’anno precedente. Con 372 mila persone in più si raggiunge un contingente di circa 4,5 mln di cittadini che hanno dovuto rinunciare a visite o accertamenti per problemi economici, di lista di attesa o difficoltà di accesso.

Sul territorio, l’incremento del 2023 rispetto all’anno precedente si concentra soprattutto al Centro (dal 7,0% all’8,8%) e al Sud (dal 6,2% al 7,3%), cosicché riemergono i differenziali geografici delle macroaree, che si erano attutiti tra il 2020 e il 2021 e completamente annullati nel 2022: nel Centro si registra la più alta quota di rinuncia
(8,8%), segue il Mezzogiorno con il 7,7%, mentre il Nord con 7,1% mantiene lo stesso livello del 2022.

Il 4,5% della popolazione complessiva nel 2023 dichiara di rinunciare a causa delle lunghe liste di attesa, mentre il 4,2% lo fa per motivi economici.

L’appello dei 14 scienziati a difendere la sanità pubblica

Da questa gravissima crisi, nasce l’appello di 14 scienziati a difendere la sanità pubblica.

“Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico. Oggi i dati dimostrano che è in crisi: arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali. Molto si può e si deve fare sul piano organizzativo, ma la vera emergenza è adeguare il finanziamento del Servizio sanitario nazionale agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del Pil). Ed è urgente e indispensabile, perché un Ssn che funziona non solo tutela la salute, ma contribuisce anche alla coesione sociale” ha dichiarato il Premio Nobel Stefano Parisi.

Per i 14 scienziati “è dunque necessario un piano straordinario di finanziamento del Ssn e specifiche risorse devono essere destinate a rimuovere gli squilibri territoriali. La allocazione di risorse deve essere accompagnata da efficienza nel loro utilizzo e appropriatezza nell’uso a livello diagnostico e terapeutico, in quanto fondamentali per la sostenibilità del sistema”.

Il sistema sanitario deve recuperare “il suo ruolo di luogo di ricerca e innovazione al servizio della salute. Parte delle nuove risorse deve essere impiegata per intervenire in profondità sull’edilizia sanitaria, in un Paese dove due ospedali su tre hanno più di 50 anni e uno su tre è stato costruito prima del 1940. Ma il grande patrimonio del Ssn è il suo personale: una sofisticata apparecchiatura si installa in un paio d’anni, ma molti di più ne occorrono per disporre di professionisti sanitari competenti, che continuano a formarsi e aggiornarsi lungo tutta la vita lavorativa. Nell’attuale scenario di crisi del sistema, e di fronte a cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti, è inevitabile che gli operatori siano sottoposti a una pressione insostenibile che si traduce in una fuga dal pubblico, soprattutto dai luoghi di maggior tensione, come l’area dell’urgenza”

Infine rimarcano i firmatari “oggi il problema non è più procrastinabile: tra 25 anni quasi due italiani su cinque avranno più di 65 anni (molti di loro affetti da almeno una patologia cronica) e il sistema, già oggi in grave difficoltà, non sarà in grado di assisterli. La spesa per la prevenzione in Italia è da sempre al di sotto di quanto programmato, il che spiega in parte gli insufficienti tassi di adesione ai programmi di screening oncologico che si registrano in quasi tutta Italia. Ma ancora più evidente è il divario riguardante la prevenzione primaria; basta un dato: abbiamo una delle percentuali più alte in Europa di bambini sovrappeso o addirittura obesi, e questo è legato sia a un cambiamento – preoccupante – delle abitudini alimentari sia alla scarsa propensione degli italiani all’attività fisica. Molto va investito, in modo strategico, nella cultura della prevenzione (individuale e collettiva) e nella consapevolezza delle opportunità, ma anche dei limiti della medicina moderna”.

L’autonomia differenziata

A tutte queste problematiche si aggiunge l’autonomia differenziata che rischia di ampliare ulteriormente le disuguaglianze nelle condizioni di accesso al diritto alla salute.

Secondo il Report SVIMEZ “Un Paese, due cure. I divari Nord-Sud nel diritto alla salute”, dopo l’emergenza Covid-19 i divari territoriali sono ulteriormente aumentati in un contesto di una generalizzata debolezza del Sistema Sanitario Nazionale che, nel confronto europeo, risulta sottodimensionato per stanziamenti di risorse pubbliche (in media 6,6% del PIL contro il 9,4% di Germania e l’8,9% di Francia), a fronte di un contributo privato comparativamente elevato (24% della spesa sanitaria complessiva, quasi il doppio di Francia e Germania).

Dai dati regionalizzati di spesa sanitaria (di fonte Conti Pubblici territoriali) risultano livelli di spesa per abitante, corrente e per investimenti, mediamente più contenuti nelle regioni meridionali. A fronte di una media nazionale di 2.140 euro, la spesa corrente più bassa si registra in Calabria (1.748 euro), Campania (1.818 euro), Basilicata (1.941 euro) e Puglia (1.978 euro). Per la parte di spesa in conto capitale, i valori più bassi si ravvisano in Campania (18 euro), Lazio (24 euro) e Calabria (27 euro), mentre il dato nazionale si attesta su una media di 41 euro. Il monitoraggio LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), che offre un quadro delle differenze nell’efficacia e qualità delle prestazioni fornite dai diversi SSR, fa emergere i deludenti risultati del Sud: 5 regioni del Mezzogiorno risultano inadempienti.

Secondo gli  indicatori BES (Benessere Equo e Sostenibile) sulla salute, il Mezzogiorno è l’area del Paese caratterizzata dalle peggiori condizioni di salute. Si amplia nuovamente il divario territoriale Nord-Sud rispetto al 2022. Il differenziale geografico della vita attesa in buona salute nel 2023 è di circa 4 anni a svantaggio del Mezzogiorno (56,5 anni), rispetto al Nord (60,6). Dopo la riduzione del divario Nord-Sud ai livelli minimi del 2021 e 2022 (circa 2,5 anni), il differenziale ritorna a livelli pre-pandemia (era pari a 3,9 anni nel 2019).

Il rinvio dei Lea (Prestazioni essenziali di assistenza)

La Conferenza Stato Regioni ha dato l’ok alla proroga al primo gennaio 2025 per l’entrata in vigore del nuovo nomenclatore tariffario per specialistica ambulatoriale e protesica.

Le motivazioni sono due: le Regioni non hanno fondi sufficienti per attuare il nuovo decreto, che prevede l’ampliamento delle prestazioni essenziali. L’altra motivazione è che alcune Regioni hanno difficoltà nell’applicare il decreto, in particolare per quanto riguarda la definizione dei nuovi nomenclatori e la riorganizzazione dei sistemi informatici.

Di conseguenza delle 406 prestazioni nuove su 2.108, non potranno essere erogate dal SSN. Inoltre, la proroga impedirà l’accesso alle prestazioni come la procreazione medicalmente assistita, quelle per la diagnosi o il monitoraggio della celiachia, gli screening neonatali per alcune patologie, gli ausili informatici e di comunicazione per persone con gravissime disabilità, i presidi di varia natura e a tecnologia avanzata per le disabilità motorie.

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